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The Wall: is there anybody out there?



Ogni epopea è tratta da una storia vera.

Le esperienze, i dolori e i sentimenti dell’autore vivono intrappolati nella sua opera ed è proprio quando siamo in grado di accorgercene che questa si consacra come un capolavoro.

Ogni volta che qualcuno ascolta “The Wall”, undicesimo album in studio dei Pink Floyd, accade proprio questo: attraversa una vita tormentata e riesce a comprendere i sentimenti e le contraddizioni che popolano questo mondo ostile e oscuro.

Un mondo che porta il nome di Roger Waters.

Dal successo di “Wish you were here” Roger Waters, cantante e bassista della band britannica Pink Floyd, ha ormai definitivamente preso le redini del gruppo, imponendosi come unico frontman e autore della maggior parte delle composizioni.

The Wall, infatti, è spesso considerato come un enorme lavoro solista ed è di fatto la biografia allegorica del suo autore.

La sua forte personalità non lascia spazio agli altri componenti della band, autori di una manciata di brani, schiacciati dall’immensa figura del loro leader.

Il disco è uno degli album doppi più famosi di sempre, 26 tracce per un totale di 81.12 minuti, e articola per tutta la sua durata canzoni complesse e geniali sia sul piano musicale, sia per quanto riguarda i testi e i loro significati.

Bob Ezrin, storico produttore della band, ha saputo esaltare al meglio i suoni, le sperimentazioni e gli accostamenti di stile totalmente unici della formazione londinese.

I toni sono puliti, cupi e tenebrosi. Le canzoni prendono vita dai bassi di Waters e dalla chitarra di Gilmour, sviluppandosi in generi tanto vari quanto diversi: dall’hard e progressive rock fino ad arrivare a brani lirici.

Non mancano però ballate commoventi come “Mother”, “Hey You” e la meravigliosa “Comfortably Numb”, punta di diamante dell’album.

Il crescendo dell’alternarsi frenetico di stati d’animo aumenta la dinamicità del disco, esternando l’agitazione e la follia interiore del suo autore.

La chiave di lettura dell’opera non risiede nelle sue musiche, semplice mezzo per comunicare il suo significato e la storia che esso vuole raccontare.

E’ in pieno stile Pink Floyd, infatti creare dei concept album: dischi che seguono un preciso filo conduttore, in questo caso la storia dell’alter ego di Waters, Pink, un cantante rock tormentato dalle vicissitudini familiari e dalla estenuante e ipocrita vita da rockstar.

Una storia che inizia con “In the flesh”, un brano esplosivo che coinvolge da subito l’ascoltatore e con il quale inizia il primo filone narrativo dedicato all’infanzia di Pink.

La fanciullezza del giovane è oppressa dal costante ricordo del padre, partito per la guerra e mai più tornato, e dalle ingiustizie nate fra i banchi di scuola e cantate nella celeberrima “Another brick in the wall” in ognuna delle sue 3 parti.

Vi è poi l’ombra di una madre iperprotettiva che priva il figlio della sua libertà di crescere e lo allontana dai suoi compagni, per custodirlo gelosamente come un tesoro.

Questi primi tre aspetti della vita di Pink gettano le fondamenta per quel muro che lo separerà dal mondo esterno.

Un muro che viene edificato nel secondo lato del primo disco.

“Goodbye blue sky” è un’ultima ballata sospesa dove Pink abbandona ogni speranza prima di chiudersi in sé stesso, lontano da chiunque possa alterare il suo equilibrio malato, retto da lunghi silenzi e spazi vuoti che squarciano la sua anima, alimentando la paura di rimanere indifeso e solo.

Dire addio a questo mondo crudele è solamente l’ultimo passo che lo separa dall’apogeo della sua storia.

Il terzo atto rappresenta il culmine delle sofferenze e delle incertezze del giovane Pink, che raggiungono il loro apice drammatico.

In un alternarsi di atmosfere surreali, Pink conosce il successo effimero delle rockstar che sfuma nell’ipocrisia delle etichette discografiche e nelle richieste di un pubblico irrispettoso che consuma fino al midollo le fragili membra del giovane.

Distrutto anche dai tradimenti della moglie che mettono in bilico il suo matrimonio, Pink perde l’ultima delle sue consolazioni.

Solo un intervento disperato dei suoi manager lo salverà dall’overdose per far sì che possa tornare sul palco e accrescere ancora i loro interessi.

Non a caso in questo lato si concentrano le musiche più belle e struggenti del disco che rendono concreti sentimenti così profondi e laceranti da rendere ogni ascoltatore “piacevolmente insensibile”. E’ infatti sul capolavoro di “Comfortably Numb” che si chiude il terzo lato di The Wall avvolto da un costante e onnipresente senso di disperazione.

“I didn’t mean let them take away my soul. Am I too old, it’s too late? The show must go on”

Con questi ultimi, dolci versi il nostro viaggio si avvia all’epilogo, un breve ma fondamentale momento di lucidità durante il quale Pink riesce finalmente a esprimere la sua volontà.

Il giovane riemerge dall’isolamento quasi fatale con un volto nuovo, si aggrappa ad ogni appiglio di speranza per poter scalare quell'invalicabile muro e in un'ultima folle corsa verso la meta scopre per la prima volta se stesso e quel mondo lontano tanto temuto.

Fuori dal muro trova la pace, fuori dal muro lo aspetta una vita reale, fuori dal muro troviamo il lieto fine della nostra storia.

Un racconto che necessita di essere narrato ancora oggi, a 41 anni esatti di distanza dall’uscita dell’album.

In un presente più che mai incerto e sconfortante abbiamo bisogno di riconoscere noi stessi e le debolezze che ci isolano partendo proprio dal nostro muro per poi, alla fine, riuscire a scoprire che cosa esiste davvero oltre a questo.

Dal 1979 inizierà il lento e inesorabile declino della band, dovuto anche al successivo abbandono di Waters, senza il quale non sarà mai più in grado di ritornare all’assoluto splendore di The Wall che figura alla posizione n. 87 nella lista dei 500 migliori album di sempre ed è entrato nell’immaginario collettivo come l’ultimo capolavoro assoluto dei Pink Floyd.


Luca Passerini


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