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Per un milione di dollari


“Voglio spendere un milione di dollari” apostrofa Cobain in merito al video di Heart Shaped Box, prima di sapere che diventerà uno dei singoli più di successo di un gruppo all’apice di una breve e sfortunata biografia, terminata in tragedia la notte del 5 aprile di un paio d’anni più tardi.

Ma siamo nella calda estate del ‘93, Kurt sta ancora tentando di costruire la propria famiglia felice nei dintorni di Seattle e la laringite che fermerà il tour, l’ultimo del gruppo grunge giunto al successo internazionale grazie alla foga e al coinvolgimento di milioni di giovani con Teen Spirit, non è altro che un’ipotesi lontana, nemmeno calcolata.

La traccia, appoggiata da un degno lato b (Marigold), esperimento creativo del batterista Dave Grohl, distribuita inizialmente solo come singolo radiofonico destinato alle stazioni radio modern rock e album-oriented, diventa in poco uno dei singoli di punta della band e proprio per questo necessita di un video con cui essere promossa al mercato internazionale.

Una sperimentazione, una messa a punto dell’ossessione del cantautore per l’analisi dei corpi, per le scenografie su più piani, in cui un utero è allo stesso modo scoperto di un polmone e di orecchio sinistro.

E’ un lavoro che richiede tempo, una meticolosa ricolorazione a mano di ogni singolo fotogramma, precedentemente trasferito in bianco e nero dal filmato originale.

Fun fact: la tecnica della colorazione, proposta dal produttore esecutivo Corbijn, era stata pensata come metodo alternativo al Technicolor, le cui apparecchiature erano disponibili solo in Cina, meta decisamente troppo lontana per Krist e Dave, che si erano opposti fin da subito alla richiesta del frontman.

Le indicazioni sono precise: i papaveri, il crocifisso, una bambina con un lungo cappello a punta nei panni di un membro del Ku Klux Klan e per ultimi ma non per importanza i feti appesi agli alberi, tra cui si fa spazio una grossa signora, vittima dei giochi di prospettiva da cui Cobain era tanto ossessionato.


Un corpo sproporzionato, come quelli che spesso si divertiva a dipingere su tele monocolori accostando all’espressione musicale quella figurativa: una creaturina tridimensionale composta da una molteplicità di solidi geometrici la cui massa si snoda su un umanoide di gesso, le cui uniche fessure sono gli occhi; un feto che si spinge di forza fuori dalla pancia della mamma per sferrare un calcio all’uomo a lei vicino, Mr Moustache, che poco prima esprimeva l’ossessivo desiderio di un maschietto: gli spazi non hanno regola, ciò che è dentro desidera uscire e ciò che esposto si ritrova tutto d’un tratto timido al punto da volersi rintanare in una superficie che nella mente di Cobain può piegarsi e diventare una scatola, un rifugio.

Un tipetto generoso, che mai si tira indietro di fronte alla richiesta di un suo personaggio di decomporsi e di trovarsi mutato in una stanza in cui la gravità spinge tutti in un angolo buio e pieno di muffa, dove risiedono le figure dimenticate, i giocattoli mai scelti da nessuno all’asilo, gli amici immaginari, come Boddha, il suo personale, lasciati svanire con l’età, chi è morto di Aids perchè non aveva mai fatto caso, al contrario di Kurt, stufo di quelle insegne a tal punto da intitolare il suo primo album come il loro prodotto, a disinfettare le siringhe di eroina con una buona dose di candeggina prima di iniettarsele in vena.

Un lavoro di restauro verso gli elementi messi in ombra dalla società, schematizzata in un corpo umano femminile visibile in ogni suo strato, oggetto scenico ricorrente durante le esibizioni a vivo sotto forma di manichini a grandezza 1.5, accostati alle esili corporature di tre piccoli pazzi in cerca di un rumore talmente assordante da coprire quello dei propri pensieri, irraggiungibile anche dalle chitarre distorte accordate in C e dalle masse indistinte di ragazzi presenti ai concerti, infervorati dalla disperazione generale degli anni ‘90.

Un’opera messa in scena in una vita decisamente troppo corta, monito ai posteri di non affezionarsi troppo alle figure plasmate dalle proprie menti.



Di Margherita Dassisti

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