Dalle valli siciliane, il grido di chi resiste
- Il Bradipo

- 21 nov
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— Annaccati Ginù. Fa iri cchiù lestu staiu branco sennò nun arrivamu cchiù — gridò Randolfo Torre a suo figlio, Luigi Torre, soprannominato dalla nascita Ginù per via della sua prima parola. Le campane di Rocca Bianca da lontano stonavano il mezzogiorno; era passata un’eternità dal suo risveglio, pensò Randolfo, avvenuto circa all’alba ormai sette ore prima. Il sole cocente spaccava le basole sulla strada percorsa dai Torre che collegava la loro cascina al paese di Rocca Bianca, vicino Palermo. — Moveteve! — gridò il ragazzo alle capre, anch’esse tormentate dal caldo estivo siciliano. I due volevano arrivare a casa prima delle dodici e trenta per passare con la famiglia il classico pranzo domenicale anche se, stavolta, non stava andando per le lisce. Dopo circa trenta minuti la famiglia arrivò a casa, una cascina in legno costruita su tre piani e dotata di un recinto esterno per le pecore. Luigi e Randolfo le portavano al pascolo ogni giorno. Al loro arrivo, la porta di casa si spalancò ed Elisa, la secondogenita di soli cinque anni affetta da sindrome di Down, uscì di corsa ad abbracciare il padre: — Fate lestu — disse Elisa — lasciate i pecore e venite a tavola.
Mentre Ginù si occupava del bestiame, Randolfo rientrò in casa fradicio. La casa era stata completamente costruita a mano dal padre prima che nascesse Elisa: era tutta in legno ma allo stesso tempo piccola. La moglie dell’uomo, Donatella, era ai fornelli a curare il pranzo che finiva di cuocere. Il marito, nel frattempo, dopo avere baciato la moglie, andò in bagno per togliersi di dosso quei vestiti fradici e puzzolenti che indossava dalla mattina. Poi si immerse in una vasca d’acqua fredda per lavarsi, non prima, però, di aver spalancato la finestra per odorare i magnifici profumi di agrumi e di fiori dell’arida Sicilia. Quando terminò quel piacevole bagno, ciò che aspettava con più entusiasmo dalla mattina, si rivestì, chiuse la finestra e raggiunse la famiglia a tavola. — Cuosa si mangià — interrogò Randolfo la moglie.
— Randolfo, u sai già, jè inutile chi u chiedi! Da quannu ci sunnu chissi nobili i tasse sunnu altissime. Nun ci possiamo permettiri autru chi furmaggiu dalle nostre pecore e uno stufato ri agneddu e basta!
In realtà questo Randolfo lo sapeva benissimo. Era solito chiedere ciò giusto per smorzare un po’ la triste situazione che si rovesciava sull’isola. Da anni, infatti, l’isola era governata dai Borbone, nobili e spietati sovrani di origine spagnola che avevano ridotto la Sicilia a una terra povera, facendo morire di fame contadini e piccoli proprietari terrieri. Tutto era iniziato con la conquista dell’isola sotto Carlo di Borbone: egli infatti cercò invano di agevolare l’economia agricola, portando solamente a un peggioramento dello stato dei contadini. Già da tempo ormai le tensioni stavano aumentando: le proteste erano all‘ordine del giorno e si era davvero sul punto di una rivoluzione. Randolfo non rispose alla moglie, perfettamente conscio della verità, e il pranzo poté iniziare solo dopo aver recitato il Padre Nostro. Tutti divorarono il proprio piatto in silenzio, rovinato solo dal rumore delle forchette che si infrangevano sui piatti e dal respiro di Elisa. Il profumo dell’agnello stufato invase la stanza ma non riuscì a nascondere quell’aria di stanchezza che tutti provavano, specialmente il padre e Luigi. — Papà — chiese Ginù improvvisamente, — Ma tu ci credi davvero chi cambierà qualcuosa?
Improvvisamente la stanza gelò. Randolfo si pietrificò con gli occhi fissi nel piatto di carne e il coltello in mano. Le bocche masticanti si placarono e il respiro affannoso di Elisa si tacque. Di colpo il padre scaraventò a terra il coltello e il piatto per la rabbia e si coprì la faccia con quelle mani sporche e rovinate dalle ore di intenso lavoro. Iniziò a piangere infinitamente e rispose: — Nun lu sacciu cchiù, Ginù… disse con voce rotta — ogni mattina mi scantu di svegliarmi e non avere più la forza di sperare. Ma… mi tocca farlo. Mi tocca, pi vui. Pi stu pezzu di terra.
Il ragazzo rimase immobile colpito più dal pianto del padre che dalle sue parole. Era la prima volta che lo vedeva così fragile, così nudo. Nella stanza rimbombò il silenzio per qualche minuto quando, ad un tratto, i suoi figli si levarono dalle sedie scricchiolanti e abbracciarono il padre. Donatella nel frattempo, attonita per la situazione, tacque; fissò Randolfo con occhi sconfortati e dispiaciuti e non esitò ad alzarsi per raccogliere il piatto di agnello che il marito aveva rabbiosamente scaraventato a terra qualche istante prima. La famiglia Torre trascorse un pomeriggio silenzioso. La scena del pranzo era ancora viva nella mente di ciascuno. Nessuno osava parlarne, ma tutti sapevano che qualcosa si era spezzato, o forse, rivelato. Quel pianto di Randolfo così crudo e naturale aveva cambiato qualcosa in Ginù. Il figlio aveva dunque conosciuto un padre diverso: non più l’uomo forte, campagnolo, e pronto ad affrontare qualsiasi pericolo che aveva visto finora, bensì un uomo fragile e stanco, lato che non aveva mai appreso.
Scoccarono le cinque quando puntualmente le campane di Rocca Bianca iniziarono a suonare. Tutto a un tratto però, la pennichella di Randolfo e di Donatella fu risvegliata da un rumore esterno: qualcuno aveva bussato alla porta. Randolfo si svegliò di botto e, dopo essersi infilato una canottiera, velocemente si rovesciò all’uscio della casa e aprì la porta. Si ritrovò davanti un uomo, alto, magro, vestito di un cappotto nero e accaldato. L’uomo, con un balzo felino, scese dal cavallo e chiese alla scorta dietro di lui di legarlo. — Don Randolfo Torre? — chiese l’uomo dolcemente cercando di nascondere l’arroganza; Randolfo, esitante, non rispose subito ma Donatella, che come una marmotta si affacciava dalla tana, gli insinuò coraggio e l’uomo rispose: — Sugnu jò, e tu cu si? — L’uomo, dopo essersi riposto il cappello a causa del caldo, rispose: — Don Cesare Belladona, esattore regio in nome dei Borbone, direttamente da Palermo — disse mostrandogli la lettera d’invio. — Vengo a riscuotere le imposte trimestrali… vediamo… famiglia Torre. Terra agricola registrata, cinque mandrie di pecore — Randolfo strinse i pugni. Don Cesare Belladona gli sventolava sotto il naso il documento regio, mentre la scorta in divisa osservava silenziosa, con le mani sulle baionette. — E allora, Don Torre? Paga o si prepara a perdere le sue pecore? — disse il riscossore, allargando un ghigno. Randolfo guardò Donatella, che stringeva Elisa al petto. Gli occhi di sua moglie dicevano tutto: paura, rabbia, impotenza. — Nun ci su’, sti soldi. Aviti a capiri — disse Randolfo, la voce tremante di vergogna. Don Cesare socchiuse gli occhi, con un tono più duro: — Allora prenderemo ciò che ci spetta. Una pecora per ogni settimana di ritardo. Tornerò fra tre giorni. E se troverò vuoto il recinto, prenderemo la casa. Fece un cenno ai suoi uomini e si allontanò, lasciando dietro il silenzio e l’odore acre del sudore e della rabbia. Quella notte Randolfo uscì per sfogare la tensione. Camminò fino al margine del campo, quando udì dei lamenti soffocati. Poco lontano, due soldati borbonici stavano picchiando un contadino curvo e magro. — T’ha vistu chi succede a chi nun paga? — gridava uno, mentre colpiva il vecchio con la punta dello stivale. Randolfo non ci pensò. Afferrò un bastone e corse. Il primo colpo finì sulla nuca di uno dei soldati. L’altro si voltò, ma fu troppo tardi: Randolfo lo travolse con la forza disperata di un uomo che non ha più nulla da perdere. Uno dei due restò a terra, immobile. Morto. Randolfo ansimava, le mani insanguinate. Il contadino, tremante, lo guardava con occhi riconoscenti ma spaventati. Quando Randolfo rientrò, il cielo era ancora nero. Ma qualcosa non tornava. La casa era silenziosa, troppo. Aprì la porta e trovò Donatella in piedi, una lettera in mano. Tremava. — Ginù… è scappato — sussurrò, porgendogli il foglio. Randolfo lo prese e lo lesse: “Papà, ora so perché piangi. Ora capisco che non sei solo forte, ma anche stanco. E io non posso restare qui a guardare. Vado a Palermo. Vado a cercare un modo per cambiare tutto. Non ti odio, ti ammiro. Tuo figlio, Ginù.” Randolfo restò muto. Poi, senza parlare, si vestì. Prese un sacco, qualche pezzo di pane secco e partì. Il cammino fu lungo. A ogni paese, Randolfo domandava, chiedeva notizie. Scoprì che Ginù era passato per alcuni borghi, aveva parlato con contadini, dormito nelle stalle, aiutato a sollevare fienili. Un giorno, Randolfo si fermò a bere in una fontana vicino Corleone. Lì incontrò un gruppo di contadini armati, giovani e vecchi. Uno di loro gli offrì del pane. — Tu sei Randolfo Torre? — chiese uno, sorpreso. — Tuo figlio ci ha parlato di te. Sta con i garibaldini ora. È andato a unirsi a quelli che stanno arrivando da Marsala. Randolfo si alzò di scatto. Le gambe tremavano ma il cuore batteva forte. Una speranza, viva. Dopo giorni di cammino, finalmente lo trovò. Ginù era tra le fila dei volontari, la camicia rossa larga, il fucile in spalla. Quando lo vide, spalancò gli occhi. — Papà… — Randolfo non disse nulla. Lo abbracciò. Un abbraccio lungo, forte, sporco di fango e sangue. — Lottiamo insieme, Ginù. Pi nuatri. Pi sta terra. Le truppe garibaldine avanzavano tra i colli bruciati dal sole. Palermo era vicina. Randolfo e Ginù, fianco a fianco, non parlavano molto, ma tra loro ormai c’era un’intesa nuova, fatta di sguardi e silenzi. Avevano combattuto in piccole schermaglie nei villaggi e aiutato a liberare contadini imprigionati. Ogni giorno sembrava avvicinarli alla libertà. Ogni giorno sembrava dare un senso alla fatica. La notte prima dell’assalto a Palermo, il campo era silenzioso. Randolfo e Ginù sedevano attorno a un fuoco improvvisato, mangiando pane e fave. — Papà, stavolta ce la facciamo, vero? — sussurrò Ginù. Randolfo lo guardò, il viso scavato dal tempo e dalla polvere. — Forse sì, Ginù. O forse no. Ma almeno ci stamu pruvannu. L’indomani, alle prime luci dell’alba, l’aria fu rotta dai colpi di fucile. Le truppe borboniche cercavano di resistere, ma l’avanzata era forte. In mezzo al caos, padre e figlio correvano tra le macerie e i vicoli. A un certo punto, una bomba a mano lanciata da un balcone esplose vicino a loro. Randolfo fu scaraventato a terra. Ginù urlò: — Papà! Papà! Randolfo si rialzò, sanguinante ma cosciente. — Corri, Ginù! Vattinni! — — No! Non ti lascio! — Un secondo sparo riecheggiò. Ginù si voltò appena. Un soldato borbonico gli aveva mirato al petto. Il colpo fu secco. Ginù cadde. Randolfo si lanciò su di lui. Lo prese tra le braccia, gridando come un animale ferito. — No, no, no… Ginù, figghiu miu… resisti, ti pregu… Il ragazzo tossì, un rivolo di sangue sulle labbra. Ma sorrideva. — Ce l’abbiamo fatta, papà… A casa mia… ora ci sarà libertà… E chiuse gli occhi. Randolfo restò lì, abbracciandolo stretto, mentre le truppe garibaldine entravano in città e la folla esultava. Qualche mese dopo, nel silenzio della campagna tornata libera, Elisa correva tra i filari di limoni. Donatella era alla finestra, col sole che le baciava il volto. Randolfo, più curvo ma più umano, sedeva davanti a una piccola lapide in pietra, piantata in mezzo alla terra che avevano difeso insieme.
— di Tommaso Ghidoni —





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