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Covid fan tutti


Non siamo precipitosi nel nostro giudizio: la didattica a distanza ha salvato il poco che è rimasto della scuola tra zone rosse, lockdown e quarantene in ciò che rimane una tremenda sconfitta per l’istruzione, per la politica e per gli studenti. I problemi li conosciamo fin troppo bene: totale spersonalizzazione, mancanza di ogni rapporto tra studenti e insegnanti, una bolla di isolamento che porta ansia e depressione. Ma da strumento di emergenza può trasformarsi in prassi. In verità la dad si trascina problemi vecchi di decenni, temi trascurati, buchi lasciati da riforme timide e claudicanti. Dietro la maschera della necessità contingente, si celano le istanze di chi con stucchevole retorica vuole “portare la scuola nel futuro” e da anni propone di riformarla in senso aziendalista e tecnicista. L’idea della scuola delle competenze si è già insinuata nei programmi degli istituti di ogni ordine e grado: la scuola come anticamera del lavoro, come palestra per le carriere è ormai opinione diffusa e trova consensi quasi unanimi nel mondo della politica pragmatica, vagamente progressista e irrimediabilmente neoliberista. Del senso etico e poetico della scuola come luogo della crescita personale di individui e cittadini è scomparsa ogni traccia, risucchiata nel vortice di programmi disumanizzati e sempre più aridi di contenuti critici e pedagogici. La dottrina del pratico schiaccia sotto il peso della fretta e della multidisciplinarietà le occasioni di miglioramento, di confronto e di riflessione aperta e libera.

La bandiera delle competenze acquisite -lungi dall’abolire nei fatti il nozionismo imperante- si risolve in un taglio arbitrario e palese delle discipline umanistiche. Ottimizzare costi e profitti nella formazione del “capitale umano” è il mantra di questi signori che sembrano soffrire di un’innata idiosincrasia per le humanae litterae, quelle materie che arditamente abbracciano ancora la teoresi e perseguono con scandalo la loro totale inutilità. Come il signor Gradgrind dickensiano essi vogliono solo “fatti”, e sul metro dei fatti costruiscono la loro personalissima idea di scuola, sulle statistiche di occupazione, su un’indistinta idea di modernità globalizzata e, ovviamente, iperconnessa.

Guerra a Socrate e Platone quindi, e a tutto quel superfluo retaggio di vecchiume accademico da cancellare con un colpo di spugna. Lo vorrebbero, ne sono convinto; li trattiene la proverbiale lentezza della burocrazia, le poche risorse e le infinite lamentele degli insegnanti e di chi ancora difende il valore degli studi umanistici. Procedono forzatamente lenti, a piccoli passi, entusiasti demolitori di quell’edificio che pure contiene, preserva e diffonde la nostra cultura. Siamo ora ad uno stadio intermedio di questo processo di radicale cambiamento, ma nulla fa pensare che possa essere in qualche modo reversibile. Convivono le polverose biblioteche e le fiammanti aule computer, sopravvive ancora qualche vecchio e consunto “IL” tra i luccicanti banchi a rotelle: il nuovo avanza e travolge il vecchio lasciando terra bruciata. Non so quanti si siano accorti di come questo processo abbia subito una brusca accelerazione con la didattica a distanza, di quanto povere e insoddisfacenti siano le nostre giornate a “scuola”, di quanto più spesso guardiamo il registro elettronico che appena aperto ci ricorda la nostra media a caratteri cubitali e ci fornisce sempre aggiornate statistiche sul nostro andamento. Con la dad abbiamo lanciato uno sguardo sul futuro -grigissimo- che ci attende.


di Stefano Fabbro

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