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Immagine del redattoreIl Bradipo

40 anni dalla morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa

La questione della memoria è sempre particolarmente complessa. Rischia molto spesso di sintetizzarsi in un ricordo estemporaneo racchiuso entro il perimetro di una ricorrenza, promuovendo così l'esaltazione al posto della comprensione.


Il ricordo crea eroi. La memoria ci spiega come gli eroi siano persone oneste fino in fondo e, soprattutto, ci svela i veri nemici degli "eroi". Almeno in questo caso.


Se oggi, a esattamente quarant'anni dalla morte, è fondamentale parlare ancora di Carlo Alberto dalla Chiesa non è solo per celebrarlo, fra l'altro giustamente, ma anche per comprendere contro cosa e chi abbia dovuto combattere, da solo.


Generale atipico, dal grande intuito investigativo e innovatore nei metodi di indagine, dalla Chiesa capì con grande anticipo sui tempi le dinamiche e la portata della mafia in un periodo fondamentale per la storia del nostro Paese. Gli anni '70, tra il terrorismo nero e rosso, sono anche gli anni in cui la mafia estese i suoi traffici illeciti al mondo della droga diventando sempre più ricca e potente. Tuttavia la realtà mafiosa già all'epoca non era piu solo un mondo a sè stante, contadino e chiuso nei suoi territori, ma era già un sistema istituzionalizzato, con sindaci, presidenti di regione collusi. Gli affari di mafia erano quindi affari di Stato e lottare contro la mafia voleva dire quindi lottare contro un pezzo di Stato. Più o meno lo stesso Stato che dalla Chiesa difendeva con fedeltà e impegno e dal quale ricevette piu schiaffi che incoraggiamenti.


Prima fu trasferito lontano da Palermo, costretto a un continuo giro d'Italia, poi fu isolato all'interno dell'Arma dei Carabinieri, e infine abbandonato totalmente una volta diventato prefetto di Palermo il 29 marzo del 1982. A tal proposito è di un'ironia molto amara la scena de "La mafia uccide solo d'estate" in cui il piccolo protagonista Arturo "elude" la sorveglianza e riesce a incontrare tranquillamente Carlo Alberto dalla Chiesa per intervistarlo.


Una battaglia, insomma, con un copione già scritto e reinterpretato decine di volte nella nostra storia repubblicana. Il fatto che vicende di altri uomini assassinati come Pio La Torre, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino abbiano avuto le stesse dinamiche ci rende evidente il fatto che spesso omicidi di chiara matrice mafiosa abbiano mandanti diversi, delle "menti finissime", appartenenti al più ampio e controverso ambiente di certa politica. La stessa politica che pone le ghirlande di fiori sulle bare e che approva le leggi e i provvedimenti richiesti solo dopo l'assassinio del loro promotore. Anche in questo caso dalla Chiesa ne è esempio: per mesi chiese l'esercizio di poteri speciali per combattere direttamente la mafia in maniera più autonoma ed efficiente. Questi poteri saranno dati al suo successore, Emanuele De Francesco, solo dopo la sua morte e, sempre in quel periodo, sarà approvato l'articolo 416-bis Rognoni-La Torre che istituì, tra le altre cose, il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.


"[...] Penso che sia stato un delitto politico deciso e commesso a Palermo. Nè a me nè ad altri della mia famiglia interessa sapere chi sono stati i killer[...]. Interessa che siano individuati e puniti i mandanti che, a mio avviso, vanno ricercati e puniti nella Democrazia Cristiana siciliana."


Parole di Nando, figlio di Carlo Alberto, nell’intervista di Repubblica


Senza la conoscenza la memoria ristagna, diventa un culto e perde le sfumature essenziali del contesto storico-sociale necessarie per apprendere e capire, almeno in parte, che cosa realmente sia il nostro Belpaese.


Di Luca Passerini

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