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Panegirico del panettone



Difficile stendere un elogio del panettone, impossibile esprimere a parole la sua angelica ineffabilità. Ci proverò comunque, con una premessa: il modo migliore per convincersi della bontà unica e somma del panettone è mangiarlo, punto.

Morbido, delicato il suo impasto, ricercato ed esotico il gusto del cedro e dell’arancia candita che si sciolgono in bocca, avvolgente quello dell’uvetta: questo è il panettone. Quanto poco basta alla felicità per palesarsi in un profluvio di aromi e di sapori. E che aromi, e che profumi! Ai pochi cui è concesso assaggiarne una fetta tiepida, ciò che dico non sarà estraneo, ma certo anche gustandolo freddo, come i più fanno, non perde né di gusto né di consistenza. Anzi, tra i dolci il panettone si mantiene in dispensa più di tutti e si conserva a lungo soffice e delicato, non si secca (anche se inzuppato secco nel latte è buonissimo) né si squaglia. Non richiede particolari attenzioni nell’essere servito (dimenticate lo zucchero a velo che si rapprende in grumi sul pandoro), né si infarcisce con creme chantilly, marmellate, panne e ogni altra grassa farcitura con cui certi sogliono riempire i pandori commerciali. Il panettone è semplicemente panettone. Ogni altro accidente rovinerebbe il fragile equilibrio degli ingredienti e dei sapori, le architetture dell’impasto, la sua consistenza morbida e sincera.

Nulla lo tocca, nulla lo turba. Rimane lì, come Atlante a reggere le Feste sulle spalle, indipendente dai gusti e dalle mode effimere, esso persiste tenacemente attaccato a quello in cui crede. Non si cura delle frivolezze mondane, dei coloranti, delle decorazioni e di altri fronzoli con cui i palati abituati al gusto della plastica coprono e ammazzano gli altri dolci, non si abbassa ai volgari compromessi del commercio all’ingrosso, ma li combatte acremente a mani nude come Ercole con il leone di Nemea. Dei concorrenti si fa beffe e li squadra dall’alto di una tradizione millenaria, attestata da molti autori del passato.

Una versione ormai dimenticata del mito di Atalanta narra di come Ippomene di lei innamorato, su consiglio di Afrodite, lanciasse tre fette di panettone a guisa delle famose mele d’oro e, proprio perché affascinata dalla lucentezza dei canditi, la fanciulla avesse fermato la sua corsa mortale. D’altronde non si spiega come l’animo rustico e cacciatore di Atalanta, sprezzante degli agi e delle ricchezze, sarebbe stato attratto dalla banalità dell’oro che disprezzava, né come Ippomene riuscisse a trasportare, mentre correva, tre mele così pesanti. Tanto poté il panettone, che salvò la vita di un giovane e diletta oggi come dilettava ieri i palati più fini e capricciosi.

Non mi dilungo oltre con questi argomenti eruditi, basti ricordare che Circe (che aveva parenti a Lambrate) ne servì in quantità ad Ulisse e ai suoi compagni, e che Didone fece lo stesso con Enea, che ne rimase colpito al punto di portare con sé in Italia la ricetta, onde l’inimicizia tra Roma e Cartagine risalirebbe, secondo gli intelletti più illustri, alla scarsa reperibilità in Italia di cedri e arance candite indispensabili per la produzione del dolce.

Il panettone è insomma un dolce sodo, concreto, totale. Risplende nella fiera plasticità di una scultura di Fidia o di Prassitele; non segue il canone, esso è il canone, modello insuperato e insuperabile, sintesi perfetta di tradizione, gusto, estetica e semplicità. Chi non l’apprezza non apprezza la bontà e la bellezza, non coglie il senso della vita, e non sarà mai felice.


di Stefano Fabbro


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