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La pellicola si colora: il rapporto tra cinema e progresso tecnologico

Il 10 agosto 1939 una famiglia borghese statunitense si reca al cinematografo per passare una serata di divertimento e svago. Dopo aver mostrato i biglietti alla maschera e aver preso posto nelle poltroncine, un fascio di luce proietta un riquadro luminoso sullo schermo, e dopo qualche istante inizia la magia. Il film che viene proiettato quella sera è un adattamento de “Il Mago di Oz” diretto da Victor Fleming. Per tutta la prima parte della pellicola la famiglia si diverte, si spaventa, si emoziona. Tutto procede normalmente fino a quando, intorno al 20esimo minuto, la protagonista Dorothy Gale (interpretata da Judy Garland), dopo essere stata scaraventata dall’uragano insieme alla casa degli zii “somewhere over the rainbow”, apre la porta di legno dietro alla quale si staglia un coloratissimo paesaggio naturale… molti in sala sono meravigliati dall’improvviso, qualcuno è infastidito da tanto colore che “risulta fuori tono in confronto alla classe e alla delicatezza del bianco e nero”. Ad ogni modo una cosa è certa: nessuno resta indifferente davanti alla pellicola che improvvisamente si riempie di tinte iper-saturate. È appena nato il cinema a colori.

O meglio, in realtà il cinema a colori esisteva già da almeno 30 anni: la prima testimonianza di un’immagine in movimento policromatica risale infatti al 1908, con il cortometraggio “A Visit to the Seaside”, che attraverso il processo del Kinemacolor (un processo di mescolanza additiva a due colori) restituisce un filmato con delle tinte molto artefatte. E volendo essere ancora più precisi, il primissimo caso di “motion picture” policromatico è identificabile con il cortometraggio del 1894 “Annabelle's Butterfly Dance”, prodotto da Thomas Edison e colorato a mano da un suo collaboratore.

Il primo sistema a tre colori (che permette un risultato simile quello odierno) viene sviluppato nel 1932 da Technicolor, e solo in seguito a tale invenzione le immagini policromatiche iniziano ad assumere tinte realistiche e piacevoli, restituendo in certi casi colori molto più vividi e cangianti rispetto alle tinte più contenute e realistiche del cinema moderno (ma su questo argomento ci soffermeremo più approfonditamente in seguito).

Tornando a “Il Mago di Oz”, la cosa che stupisce particolarmente è come quella celebre scena in cui Dorothy apre la porta e il colore invade l’inquadratura, continui a lasciare sbalorditi anche a distanza di più di 80 anni (nonostante oggi il colore nel cinema non sia più una novità). Per trovare una spiegazione a questo fenomeno è necessario ritornare a parlare di Technicolor e del suo sistema a 3 pellicole. Il “Three-strip process” (chiamato anche “Process 4”) consisteva nell’uso di una cinepresa in grado di registrare attraverso un prisma imprimendo l’immagine su tre pellicole monocromatiche. Grazie all’uso di filtri colorati, su ognuna delle tre strisce di film veniva impresso solamente un colore: su una veniva catturata la componente rossa, sull’altra quella verde, e sulla terza il blu. I tre negativi venivano poi colorati con i colori complementari (ciano, magenta, e giallo) e sovrapposti su una pellicola di proiezione per creare l’immagine a colori finale, caratterizzata da una intensa vividezza. Il costoso e poco pratico “Three-strip process” (per ogni minuto di girato era infatti necessario il triplo della pellicola) venne gradualmente sostituito dal più economico metodo “one-strip” commercializzato dall’azienda Kodak. La pellicola di Kodak è composta da tre strati di gelatina sovrapposti, ognuno sensibile ad un colore diverso; il risultato è una singola pellicola policromatica caratterizzata da un look meno saturo e luminoso, più realistico. Questo metodo rappresenta tuttora lo standard nell’industria cinematografica.

Osservando le date delle innovazioni citate finora, qualcuno potrebbe notare qualcosa che non torna. Infatti, nonostante il colore sia un elemento tecnicamente presente quasi dagli inizi storia del cinema, fino agli anni ’60 la maggior parte dei film continueranno a venire girati in bianco e nero. Ciò avvenne in parte per ragioni economiche (anche se svariati film con budget molto elevati furono comunque girati in bianco e nero), ma soprattutto per una questione di gusto del pubblico. Infatti, così come molti si opposero all’avvento del sonoro negli anni ’20, anche per il colore una grande fetta di pubblico disapprovò tale novità difendendo “l’estetica raffinata del bianco e nero”.

Da ciò deriva una riflessione più ampia sul rapporto tra la settima arte e il progresso tecnologico. Negli anni ’80 uscirono i primi film mainstream girati su nastro magnetico, mentre dalla fine degli anni ’90 ad oggi stiamo assistendo a un lento abbandono del cinema analogico dirigendoci verso un’industria incentrata sul digitale. E anche in questo caso il dissenso nei confronti di questa transizione non manca (Quentin Tarantino, per esempio, si è detto più volte radicalmente contrario alla transizione al digitale). Al di là del fatto che la fisicità e l’irregolarità della pellicola fotosensibile (responsabili di quel look organico tanto piacevole all'occhio umano) non siano replicabili attraverso le celle ordinate di pixel che compongono un’immagine digitale, il problema più grande è che la velocità e l’economicità del digitale stanno determinando una crescita della quantità e calo della qualità delle produzioni. Al contempo è però anche vero che il digitale ha permesso la realizzazione di progetti impossibili 30 anni fa (basti pensare a certi documentari realizzati in condizioni estreme), oltre che aver reso accessibile la settima arte ad una vastità di registi emergenti che 30 anni fa non sarebbero mai riusciti a realizzare un film senza una grossa produzione alle spalle (esempio eclatante è il caso di Sean Baker con il suo film Tangerine, girato interamente con un iPhone 5s nel 2015). Per non pensare alle operazioni di computer grafica e alla flessibilità nella manipolazione del colore che il digitale permette. In sostanza risulta evidente come i pro e i contro della transizione al cinema digitale costituiscano in realtà due facce della stessa medaglia.

Lo “storcere il naso” al progresso è un fenomeno onnipresente (nel cinema come in tanti altri ambiti, artistici e non), il che sotto certi aspetti è anche comprensibile. L’esempio più recente è l'intelligenza artificiale, che secondo alcuni potrebbe determinare la fine dell'industria cinematografica per come la conosciamo. C'è però una riflessione che è bene fare: quando negli anni ‘40 dell'800 nacque la fotografia, molti artisti temettero che ciò avrebbe determinato la fine della pittura, nonostante ciò oggi la pittura è tutt'altro che morta; questo ragionamento è perfettamente applicabile anche al teatro e a tante altre forme d'arte. Questo esempio permette di comprendere come, nell'arte più che in ogni altra cosa, il progresso non distrugge ciò che lo precede, ma semplicemente il nuovo affianca il vecchio in una dinamica di arricchimento reciproco.

 
 
 

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